Gioca a poker, imparerai a vivere
di Bruno Ventavoli
Nessuno potrà mai puntare con certezza sulla sua vera nascita. Forse si
chiamava «as nas» e arrivava dalla Persia. O forse «poque» e sollazzava i
francesi del’600. Per certo si sa invece che irrigato dalle pigre e
possenti acque del Mississippi è diventato il gioco più famoso del
mondo. Là su quei battelli a vapore con le ruote immense, giravano ex
schiavi pronti a giocarsi la propria libertà, e un tipo di nome Mark
Twain che scrutando partite furiose cullò l’idea di diventare
romanziere. Alla Storia del poker
è ora dedicato un bel libro, scritto dal francese Franck Daninos, con
premessa di Luca Pagano, il giocatore più famoso d’Italia, e postfazione
di Enrico Miele, giornalista che si diletta a spillare carte.
Di origini incerte, come qualsiasi pandemia, il poker è esploso in
innumerevoli ceppi, varianti, regole. Richiedeva astuzia, intelligenza,
audacia, e anche il coraggio di «bluffare», ovvero far credere di avere
qualcosa che non si ha. Per questo diventò il simbolo della giovane
America, che proprio su quelle qualità si era basata, per poi sbancare
più volte i destini planetari. Si cominciò a giocare nella Louisiana
schiavista e raffinata, che lusingava i professionisti delle carte,
invece di arrestarli o linciarli come accadeva altrove. Durante la
guerra di Secessione era così popolare che confederati e nordisti
spesso, prima di scannarsi vicendevolmente, improvvisavano pacifiche
partite fuggendo dalle trincee. Poi si sparse nel West, insieme
all’avanzata rapinosa dei bianchi nelle terre indiane, trasformandosi in
turbolenta liturgia per quel le città di confine che miscelava febbre
dell’oro, violenza, legge del più forte. Là dove i codici penali
latitavano, gli sceriffi, sempre abili pistoleri, erano tra i più
accaniti pokeristi. Venivano persino sussidiati per sedere nei saloon e
giocare, perché attiravano clienti, garantendo partite più regolari e
meno sparatorie nelle mani sfortunate.
Il poker piacque ai miti del selvaggio Ovest, da Wild Bill Hickok (che
morì nella celebre «mano del morto», due assi e due otto neri) a
Calamity Jane (un po’ prostituta un po’ esploratrice dell'esercito), da
John Doc Holliday, il dentista diventato pistolero, a Wyatt Earp. Ma
anche a senatori, a presidenti come Nixon (che si finanziò brani di
campagna elettorale con le carte), a produttori di Hollywood come Mack
Sennett, ad attori come Dean Martin e John Wayne. Entrò nella
letteratura, o al cinema (da California poker a Rounders).
Gioco di bravura e di rapina, ha sempre suscitato meraviglia e orrore.
In Usa, ad un certo fu punto persino proibito, eppure quando le truppe
americane vennero a combattere in Europa, lo stato fornì ai suoi ragazzi
combattenti mazzi di carte con i grandi leader sugli assi (l’alleato
Stalin era l’asso di cuori, il nemico Hitler, il Jolly).
Una data fondamentale è il ’70, quando a Las Vegas, l’unico luogo dove
si poteva giocare legalmente, anche se nei casinò non era amato, perché
non faceva guadagnare niente al banco, un tal Benny Binion, malavitoso
texano, implicato in vari omicidi (comunque la fece sempre fran ca con
la legge) decise di inventarsi un campionato mondiale nel suo casinò.
Arrivarono un pugno di ceffi incredibili che disputarono mani per
qualche giorno, chiusi in una stanza. Alla fine dovettero eleggere il
«campione del mondo». Ognuno ebbe un solo voto, perché tutti scelsero se
stessi. Poi, grazie a un giornalista, quel rudimentale cimento, ebbe
regole più precise nelle successive edizioni, come un vero torneo
sportivo, e nacquero le Wsop, le oggi mitiche «World Series of Poker».
Dopo gli avanzi di galera dei primordi, arrivarono donne, contabili,
esuli iraniani, religiosi, gente per bene. E il poker, nella versione
texas hold’em fu trasfigurato, a sorpresa, in un immenso fenomeno
mediatico. Prima televisivo, quando un genio, Harry Orenstein, (ebreo
polacco scampato al lager che inventò le bambole che chiudono gli occhi e
i «Transformers»), propose di mettere microtelecamere sotto le carte
dei giocatori per farle vedere anche ai telespettatori e dare brivido ai
tornei. E poi, internettiano, quando sono nati siti di poker on line,
piccole miniere d’oro, fonte di immenso divertimento e talvolta,
ovviamente, anche di truffe (stigmatizzarle, tuttavia, sarebbe
ingenuamente babbeo: esse fanno parte del poker, come la mischia del
rugby).
Dato che quel gioco produce miracoli, e che due carte agghiaccianti
possono risultare vincitrici, con un po’ di fortuna, molta audacia, e un
pizzico di bluff, il demiurgo mafioso delle wsop è morto in odore di
santità, mentre, grazie al web, casalinghe e ragazzetti con ceffo
imberbe diventano campioni. Chi trionfa nei tornei assurge al ruolo di
star, pubblica libri, pontifica in tv, propaganda una vita senza lavoro,
dove si suda solo giocando, rendendo un atavico vizio magnifica virtù.
Sembrano sogni minori, sciocche questioni di azzardo e magari persino un
goccio depravate. Ma come tutti i giochi, anche il poker è magister vitae.
Forse persino meglio di altri. Já-nos Neumann, un ebreo di origi‑ ne
ungherese, eccezionale matematico, tra i padri dell’atomica e del
computer, ispirandosi alle sue scarse partite di poker, esplorò una
nuova prateria della matematica, «la teoria dei giochi», per dare
dignità e prevedibilità scientifica al «bluff». Nella storia, nelle
guerre, nell’economia, ma anche nell’amore, non serviva, secondo lui, la
perfetta razionalità dello scacchista che vede tutti i pedoni schierati
sulla scacchiera e può capire le rigide mosse dell’avversario, ma
l’intuito, l’arroganza, l’audacia, del giocatore che si lambicca per
intuire le carte nascoste dell’avversario. Può avere tutto, quando fa la
sua puntata sbruffona, ma anche nulla. E chi sa andare a «vedere» nel
momento giusto saprà vincere.
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