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venerdì 8 marzo 2013

Storia del poker

Storia del poker di Franck Daninos, edizioni Odoya
UNA DIVERTENTE STORIA DI CARTE E BARI DAI BATTELLI DEL MISSISSIPPI AI TORNEI ONLINE
Recensione apparsa su TuttoLibri de La Stampa, l'08 Ottobre 2011

Gioca a poker, imparerai a vivere
di Bruno Ventavoli


Nessuno potrà mai puntare con certezza sulla sua vera nascita. Forse si chiamava «as nas» e arrivava dalla Persia. O forse «poque» e sollazzava i francesi del’600. Per certo si sa invece che irrigato dalle pigre e possenti acque del Mississippi è diventato il gioco più famoso del mondo. Là su quei battelli a vapore con le ruote immense, giravano ex schiavi pronti a giocarsi la propria libertà, e un tipo di nome Mark Twain che scrutando partite furiose cullò l’idea di diventare romanziere. Alla
Storia del poker è ora dedicato un bel libro, scritto dal francese Franck Daninos, con premessa di Luca Pagano, il giocatore più famoso d’Italia, e postfazione di Enrico Miele, giornalista che si diletta a spillare carte.
Di origini incerte, come qualsiasi pandemia, il poker è esploso in innumerevoli ceppi, varianti, regole. Richiedeva astuzia, intelligenza, audacia, e anche il coraggio di «bluffare», ovvero far credere di avere qualcosa che non si ha. Per questo diventò il simbolo della giovane America, che proprio su quelle qualità si era basata, per poi sbancare più volte i destini planetari. Si cominciò a giocare nella Louisiana schiavista e raffinata, che lusingava i professionisti delle carte, invece di arrestarli o linciarli come accadeva altrove. Durante la guerra di Secessione era così popolare che confederati e nordisti spesso, prima di scannarsi vicendevolmente, improvvisavano pacifiche partite fuggendo dalle trincee. Poi si sparse nel West, insieme all’avanzata rapinosa dei bianchi nelle terre indiane, trasformandosi in turbolenta liturgia per quel le città di confine che miscelava febbre dell’oro, violenza, legge del più forte. Là dove i codici penali latitavano, gli sceriffi, sempre abili pistoleri, erano tra i più accaniti pokeristi. Venivano persino sussidiati per sedere nei saloon e giocare, perché attiravano clienti, garantendo partite più regolari e meno sparatorie nelle mani sfortunate.
Il poker piacque ai miti del selvaggio Ovest, da Wild Bill Hickok (che morì nella celebre «mano del morto», due assi e due otto neri) a Calamity Jane (un po’ prostituta un po’ esploratrice dell'esercito), da John Doc Holliday, il dentista diventato pistolero, a Wyatt Earp. Ma anche a senatori, a presidenti come Nixon (che si finanziò brani di campagna elettorale con le carte), a produttori di Hollywood come Mack Sennett, ad attori come Dean Martin e John Wayne. Entrò nella letteratura, o al cinema (da California poker a Rounders). Gioco di bravura e di rapina, ha sempre suscitato meraviglia e orrore. In Usa, ad un certo fu punto persino proibito, eppure quando le truppe americane vennero a combattere in Europa, lo stato fornì ai suoi ragazzi combattenti mazzi di carte con i grandi leader sugli assi (l’alleato Stalin era l’asso di cuori, il nemico Hitler, il Jolly).
Una data fondamentale è il ’70, quando a Las Vegas, l’unico luogo dove si poteva giocare legalmente, anche se nei casinò non era amato, perché non faceva guadagnare niente al banco, un tal Benny Binion, malavitoso texano, implicato in vari omicidi (comunque la fece sempre fran ca con la legge) decise di inventarsi un campionato mondiale nel suo casinò. Arrivarono un pugno di ceffi incredibili che disputarono mani per qualche giorno, chiusi in una stanza. Alla fine dovettero eleggere il «campione del mondo». Ognuno ebbe un solo voto, perché tutti scelsero se stessi. Poi, grazie a un giornalista, quel rudimentale cimento, ebbe regole più precise nelle successive edizioni, come un vero torneo sportivo, e nacquero le Wsop, le oggi mitiche «World Series of Poker». Dopo gli avanzi di galera dei primordi, arrivarono donne, contabili, esuli iraniani, religiosi, gente per bene. E il poker, nella versione texas hold’em fu trasfigurato, a sorpresa, in un immenso fenomeno mediatico. Prima televisivo, quando un genio, Harry Orenstein, (ebreo polacco scampato al lager che inventò le bambole che chiudono gli occhi e i «Transformers»), propose di mettere microtelecamere sotto le carte dei giocatori per farle vedere anche ai telespettatori e dare brivido ai tornei. E poi, internettiano, quando sono nati siti di poker on line, piccole miniere d’oro, fonte di immenso divertimento e talvolta, ovviamente, anche di truffe (stigmatizzarle, tuttavia, sarebbe ingenuamente babbeo: esse fanno parte del poker, come la mischia del rugby).
Dato che quel gioco produce miracoli, e che due carte agghiaccianti possono risultare vincitrici, con un po’ di fortuna, molta audacia, e un pizzico di bluff, il demiurgo mafioso delle wsop è morto in odore di santità, mentre, grazie al web, casalinghe e ragazzetti con ceffo imberbe diventano campioni. Chi trionfa nei tornei assurge al ruolo di star, pubblica libri, pontifica in tv, propaganda una vita senza lavoro, dove si suda solo giocando, rendendo un atavico vizio magnifica virtù. Sembrano sogni minori, sciocche questioni di azzardo e magari persino un goccio depravate. Ma come tutti i giochi, anche il poker è magister vitae. Forse persino meglio di altri. Já-nos Neumann, un ebreo di origi‑ ne ungherese, eccezionale matematico, tra i padri dell’atomica e del computer, ispirandosi alle sue scarse partite di poker, esplorò una nuova prateria della matematica, «la teoria dei giochi», per dare dignità e prevedibilità scientifica al «bluff». Nella storia, nelle guerre, nell’economia, ma anche nell’amore, non serviva, secondo lui, la perfetta razionalità dello scacchista che vede tutti i pedoni schierati sulla scacchiera e può capire le rigide mosse dell’avversario, ma l’intuito, l’arroganza, l’audacia, del giocatore che si lambicca per intuire le carte nascoste dell’avversario. Può avere tutto, quando fa la sua puntata sbruffona, ma anche nulla. E chi sa andare a «vedere» nel momento giusto saprà vincere.



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